martedì 19 ottobre 2010

Soffrire di magia

Ci sono crimini che rientrano a pieno titolo nell’infame categoria del plagio, reati che vengono compiuti sfruttando la buonafede, l’ingenuità, l’ignoranza e la disperazione di chi li subisce. Sono gli atti delinquenziali peggiori, i più meschini e, purtroppo, tra i più diffusi.
Crimini che, quasi sempre, vengono ammantati da riti occulti, camuffati da sedicenti pratiche esoteriche, mascherati da cosiddetti rituali magici che dovrebbero restituire la felicità, la salute, oppure donare la ricchezza e l’amore. E, invece, sono soltanto squallidi trucchi per carpire denaro a persone che già soffrono, ostaggio di mali, di traversie familiari, di errori e di sofferenza. 
Una piaga, quella dei maghi, degli imbonitori, dei guaritori che, all’alba del terzo millennio, continua a proliferare e a imperversare. Un fenomeno che è stato affrontato, in un libro coraggioso e puntiglioso, intitolato emblematicamente “Soffrire di magia. Mamma Ebe, Vanna Marchi e le altre. Otto casi di plagio all’italiana”, scritto da Patrizia Santovecchi e Chiara Bini e pubblicato dalla Editoriale Olimpia. 
Casi esemplari, quelli presi in esame dalle due autrici, che mettono in luce storie e retroscena a dir poco assurdi, inconcepibili, vergognosi, se pensiamo che sono nati e si sono sviluppati nel tessuto di una società che si definisce civile e progredita.
Come il caso forse più famoso, da prendere quale esempio, quello che ha visto protagonista “Mamma Ebe”, al secolo Ebe Giorgini, in una lunga vicenda di arresti clamorosi, di processi, di condanne e accuse pesantissime, che prese avvio nella seconda metà degli anni Ottanta le vicissitudini di mamma Ebe e che riempirono le cronache dei giornali dell’epoca, dividendo il Paese tra “innocentisti” e “colpevolisti” e ispirando, perfino, anche un film del regista Carlo Lizzani.
Mamma Ebe diventò, improvvisamente, un personaggio pubblico nell’aprile del 1984, quando fu arrestata per la prima volta. L’ordine di cattura che venne spiccato nei suoi confronti parlava di associazione per delinquere, truffa, sequestro di persona, abbandono dei malati ed esercizio abusivo della professione medica. Tutti reati che Mamma Ebe, come veniva chiamata con affetto dai collaboratori e da chi si recava da lei per essere aiutata e curata, commessi nella duplice veste di “santona” e di imprenditrice, alla testa di un vero è proprio impero finanziario.
L'ordine religioso da lei “fondato!” (e mai riconosciuto dalla Chiesa), la “Pia Unione di Gesù misericordioso” gestiva, infatti, una quindicina di istituti disseminati in tutta Italia, e aveva la sua “casa madre” a San Baronto, un centro in provincia di Pistoia. Il processo a suo carico iniziò nel giugno dello stesso anno.
Nei giorni che seguirono ci fu una lunga processione di testimonianze, che portarono alla luce un mondo fatto di fanatismo religioso, di presunte guarigioni miracolose, di giovani trasformati in schiavi, con la promessa di un’ordinazione sacerdotale, di ragazze costrette a lavorare fino a venti ore al giorno dopo essere diventate “suore” di Mamma Ebe. Nelle cronache di quei giorni, prese forma anche il personaggio di Mamma Ebe, dotata di grande carisma, finta vergine, ma in realtà affamata di sesso e di denaro, con un guardaroba da regina, nel quale furono trovate trenta pellicce, un miliardo in gioielli, un panfilo e un parco macchine di ogni cilindrata. Un processo lampo, che fece davvero scalpore, al termine del quale la “santona” fu condannata a dieci anni di reclusione.
Un anno e mezzo dopo, ci fu il processo d’appello, che si concluse con un’altra condanna, anche se la pena venne quasi dimezzata: sei anni, con la concessione degli arresti domiciliari. Nel marzo di due anni dopo, però, Mamma Ebe fu nuovamente condannata, questa volta ad otto mesi di reclusione per associazione a delinquere. Non solo, fu arrestata una terza volta, nel novembre del 1988, perché, oltre alle accuse di sempre, si aggiunse anche quella di somministrazione di stupefacenti.
Questo perché, nonostante le due condanne precedenti, la donna non aveva mai rinunciato alla sua attività di guaritrice, che da sola le procurava circa cinque milioni di lire al giorno. Un’attività che la donna esercitava somministrando ai suoi pazienti e fedeli intrugli a base di erbe e psicofarmaci.
Ma la storia di Mamma Ebe non si fermò lì, visto che nel gennaio di tre anni fa, la “santona” fu di nuovo tratta in arresto nella sua abitazione-studio a San Baronto di Lamporecchio assieme al marito. In carcere finirono anche un medico e gli altri responsabili dell’organizzazione, già coinvolti anche nella precedente inchiesta. Anche in quel caso le accuse andarono dall’associazione per delinquere finalizzata all’esercizio abusivo della professione medica alle truffe, anche in danno di enti pubblici, alla falsità ideologica e materiale.
Sì, perché Mamma Ebe, nonostante le condanne, aveva continuato ad esercitare l’attività di guaritrice utilizzando abusivamente pratiche medico-sanitarie e riti pseudoreligiosi nei confronti di persone in stato di soggezione psicofisica.
Ma il libro di Patrizia Santovecchi e di Chiara Bini non si sofferma soltanto sui casi più clamorosi e famosi, come quello che riguarda la vicenda più recente, ma non meno inquietante, di Vanna Marchi. Nelle pagine del volume, infatti, sono riportate storie meno appariscenti, meno strombazzate dagli organi d’informazione, ma non per questo meno vergognose. Come quella che ebbe quale sfortunato protagonista un giovane ingegnere informatico, Luca Zordan. Ecco che cosa scrivono le due autrici nel loro libro, a proposito di questo caso.
E’ l’orribile ricostruzione di una morte annunciata che pare tratta da una storia ambientata nel Medioevo. In realtà è la storia degli ultimi tre giorni di vita del giovane ingegnere informatico Luca Zordan di 31 anni, spirato il 7 luglio 2006 a Quargnenta di Brogliano, nella comunità “Accademia”.
Egli, nonostante fosse ammalato di diabete mellito e dovesse ricorrere alle iniezioni di insulina, si era fatto convincere da Rita Dal Dosso e Fausto Piazzi che, interrompendo la terapia ortodossa, sarebbe guarito ricorrendo alla pranoterapia. «Sarò l’esempio vivente di una persona diabetica che combatte la malattia senza insulina», avrebbe ripetuto più volte la vittima ai conoscenti nell’ultima settimana che ha preceduto la sua incredibile morte.
Non a caso il giudice, a proposito dei discepoli del “nido” – com’era chiamato anche il complesso di via Carlassara, a Quargnenta di Brogliano – scrive: «Venivano assoggettati al regime della comunità attraverso la propagazione di farneticanti credenze magico-religiose diffuse tramite l’uso retorico di parole e gesti rituali e prospettate come risolutive di quelle problematiche, anche se dietro pagamento».
Infatti, dalle intercettazioni telefoniche, i carabinieri hanno scoperto che il piano progettato da Dosso e Piazzi sarebbe stato quello di «spogliare economicamente quanti si erano rivolti ai guru per risolvere le loro crisi esistenziali, per poi trasferirsi in Australia dove godere del tesoro accumulato».
Un caso come tanti, che si è concluso tragicamente per il povero Luca, vittima della sua buonafede e dell’inganno altrui. Uno dei tanti, uno dei molti che hanno e continuano a “soffrire di magia”.

Adriano Pascal

Il libro

Ce n’è di male in queste storie. Svegliarsi un brutto giorno in crisi personale o nelle peste economiche e consegnarsi ad un mago. Decidere, un bel giorno, di poter stringere in pugno i destini di qualche uomo e inventarsi cartomanti, astrologi, stregoni. E dunque la miriade di ciarlatani che intasano quotidianamente il video e le pubblicità dei giornali, la concorrenza e la lotta tra maghi, la violenza, l’universo delle vittime depresse, delle donne e degli uomini che vedono più nero di prima, la zizzania soffiata tra i familiari, le più belle amicizie finite. Soffrire di magia. Colpire con la magia. Due facce della stessa medaglia. Un gioco che diventa sempre più pericoloso, su su fino ai casi di Mamma Ebe e Vanna Marchi. Un mondo chiuso, senza più gli orpelli, le candele, il sale, i pentagrammi, i tarocchi, che d’improvviso rivela ben altre, terribili, abilità. E quindi gli imperi economici, i patrimoni immobiliari, i conti bancari, i gioielli, le auto. Di più. Il potere. E ancora le truffe e i truffati, le intimidazioni e gli indebitati, le estorsioni e i derubati, i ricatti e i disperati. Decine di vite di colpo toccate dal male. Fatto o subito. Fino alla ribellione.

Le autrici

Patrizia Santovecchi è nata e vive a Firenze. E’ presidente nazionale dell’Osservatorio Nazionale Abusi Psicologici (ONAP). Da anni si interessa di ricerca e informazione socioreligiosa nel campo della nuova religiosità. Ha scritto “Da Testimoni di Geova a... un aiuto per chi vuole uscire” (2002), “I culti distruttivi e la manipolazione mentale” (2004), “I culti emergenti. Sette, magia e... non solo” (2004). Con Chiara Bini ha pubblicato “Figli di un dio tiranno. Dieci storie di fuoriusciti da gruppi religiosi” (2002) e “Menti in ostaggio. I familiari raccontano” (2005).

Chiara Bini è nata a Firenze. Giornalista, ha iniziato la sua esperienza in radio (“Controradio”, “Radio Popolare”), passando poi alla televisione come redattrice (“Rtv38”) e alla carta stampata. Dal 1995 al 2000 ha lavorato a “La Nazione” di Firenze come cronista e al settore esteri del “Quotidiano Nazionale”. Vive a Firenze.

Patrizia Santovecchi - Chiara Bini

Soffrire di magia - Mamma Ebe, Vanna Marchi e le altre. Otto casi di plagio all’italiana

168 pp., euro 14,00

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