lunedì 23 dicembre 2013

Le tre messe basse - racconto di Natale



LE TRE MESSE BASSE

Racconto di Natale di A. Daudet






« Due dindi tartufati, Garrigou?...».
« Sì, reverendo, due dindi stupendi, zeppi di tartufi. Ve lo dico io, perchè ho aiutato a farcirli. E intanto pensavo che la pelle sarebbe scoppiata tanto era tesa, mentre li facevano arrosto».
« Gesummaria! Io che vado matto per i tartufi!... Dammi la cotta,Garrigou...E che cosa hai visto d’altro in cucina oltre ai dindi?».
« Oh! un sacco di buona roba...Da mezzogiorno non abbiamo fatto altro che spennare fagiani, upupe, francolini, galli cedroni...C’erano penne d’appertutto. Poi sono arrivate le anguille dello stagno, le carpe dorate, le trote e...».
« Grosse come, le trote, Garrigou?».
« Grosse così, reverendo...Enormi!».
« Mio Dio! Mi sembra proprio di vederle...Hai messo il vino nelle ampolle?».
« Sì, reverendo, ho messo il vino nelle ampolle...ma, diamine, non è certo all’altezza di quello che berrete tra poco, dopo la messa di mezzanotte. Se vedeste quel che c’è nella sala da pranzo del castello! Un’infinità di caraffe piene di vino di tutti i colori che mandano fiamme vive...E i piatti d’argento, i centrotavola cesellati, i fiori, i candelabri! Non si è mai visto un ricevimento simile. Il signor Marchese ha invitato tutti i nobili del vicinato. Come minimo sarete una quarantina a tavola, senza contare il podestà, il notaio...Ah! È stato veramente fortunato a essere invitato, reverendo. Ho annusato quei bei dindi e da allora l’odore di tartufo mi segue dappertutto...Uhm!».
« Andiamo, andiamo figliolo! Teniamoci lontano dai peccati di gola, soprattutto la notte di Natale». « Corri subito ad accendere le candele e a dare la prima scampanellata per la messa: mezzanotte è vicina e non possiamo perdere tempo».
Questa conversazione aveva luogo la notte di Natale dell’anno di grazia milleseicento e passa, tra il reverendo Balaguère, un tempo priore dei barnabiti e attuale cappellano agli stipendi dei signori di Trinquelage, e il suo chierichetto Garrigou, o almeno il prete credeva che si trattasse del suo solito chierichetto Garrigou, perchè, come vedrete tra poco, quella sera il diavolo aveva assunto la faccia tonda e i tratti ancora infantili del giovane sacrestano per indurre più facilmente in tentazione il reverendo padre e fargli commettere un terribile peccato di gola. Ordunque, mentre il sedicente Garrigou (eh! eh!) di buona lena, faceva suonare le campane della chiesetta gentilizia, il reverendo padre, nella piccola sacrestia del castello, si infilava la pianeta; aveva la mente già turbata da tutte quelle descrizioni gastronomiche e, vestendosi, continuava a ripetersi:
« Dindi arrosto...carpe dorate...trote così!».
Fuori, il vento della notte soffiava sparpagliando la musica delle campane, e via via apparivano dei lumi nell’ombra sui fianchi del monte Ventoux sulla cui cima s’ergevano le vecchie torri di Trinquelage. Erano le famiglie dei mezzadri che salivano al castello ad ascoltare la messa di mezzanotte. S’arrampicavano cantando sul pendio a gruppi di cinque o sei persone, il padre davanti con la lanterna in mano, le donne avvolte negli ampi mantelli scuri a cui, cercando riparo, s’aggrappavano i bambini. Nonostante l’ora tarda e il freddo, quella brava gente camminava allegramente, sorretta dal pensiero che, come tutti gli anni, dopo la messa, ci sarebbe stata tavola imbandita giù in cucina anche per loro. Di tanto in tanto, sull’erta china, la carrozza d’un signore preceduta dai portatori di torcia rifletteva sui vetri la luce della luna, oppure una mula trotterellava scuotendo i sonagli e, alla luce delle lanterne avvolte dalla nebbia, i fittavoli riconoscevano il podestà e lo salutavano mentre passava.
« Buona sera, buona sera, signor Arnoton!».
« Buona sera, buona sera figlioli».
La notte era chiara, il freddo ravvivava le stelle: la tramontana pungeva e un sottile nevischio scivolava sui mantelli senza bagnarli, fedele alla tradizione dei Natali bianchi di neve. Sulla sommità dell’erta il castello, la meta, appariva come un enorme ammasso di torri, di pinnacoli, col campanile della cappella che s’innalzava nel cielo blu cobalto; un’infinità di lumini ammiccavano, apparivano e sparivano, s’agitavano alle finestre in tutte le direzioni e sembravano, sul fondo cupo del palazzo, un andirivieni di scintille tra le ceneri di carta bruciata. Superato il ponte levatoio e la pusterla, per raggiungere la cappella s’attraversava il primo cortile, illuminato dal fuoco delle torce e da quello più vigoroso delle cucine e pieno di carrozze, valletti e portantine. Si udiva intanto il ronzio dei girarrosti, lo sbattere delle pentole, il tintinnio dei cristalli e dell’argenteria approntati per la cena; avvolgeva ogni cosa un tiepido tepore, il buon profumo degli arrosti, delle erbe aromatiche delle complicatissime salse, che faceva dire ai fittavoli, al cappellano, al podestà, a tutti insomma:
« Che fior di cena ci aspetta dopo la messa!».
Din, don! Din, don!
È la messa di mezzanotte. Nella cappella del castello, una vera cattedrale in miniatura con le volte a crociera e i rivestimenti di quercia per tutta l’altezza dei muri, i ceri sono accesi e gli arazzi esposti per l’occasione. Quanta gente! E che bei vestiti! Per cominciare, negli stalli scolpiti che circondano il coro, il signore di Trinquelage, con un abito di taffetà color salmone. Di fronte, sugli inginocchiatoi ricoperti di velluto, hanno preso posto la vecchia marchesa madre con un vestito di broccato rosso fiamma e la giovane signora di Trinquelage, con una acconciatura all’ultima moda della corte di Francia, una vera torre di pizzi...Più in basso, vestiti di nero, con grandi parrucche a cono e col viso rasato, stanno il podestà Thomas Arnoton e il notaio don Ambroy, due note gravi tra le sette chiassose e i damaschi a brocchi; poi i grassi maggiordomi, i paggi, i bracchieri, gli intendenti, donna Barbe con tutte le sue chiavi al fianco, infilate in un anello d’argento fino. In fondo, sui banchi, la servitù, le cameriere, i fittavoli con le famiglie: infine, in fondo contro la porta socchiusa, poi richiusa con discrezione, i signori sguatteri, che, tra una sala e l’altra vengono a sentire un po’ di messa, portandosi dietro il profumo della cena fin dentro alla chiesa in festa e calda per tutti quei ceri accesi.
Cos’è che distrae l’officiante? Forse la vista di quei cappellini bianchi? Non è forse invece il campanello di Garrigou, quella forsennata campanellina ch’egli suona con una fretta infernale e che sembra ripetere senza posa: « Sbrigarsi, sbrigarsi! Prima si finisce e prima si va a tavola».
E appena squilla quella campanella del diavolo, il cappellano dimentica la messa e si mette a pensare alla cena. Ecco che t’immagina il gran daffare dei cuochi, i fornelli in cui divampa un fuoco da fucina, il vapore ch’esce dai coperchi e in quel vapore due dindi stupendi, farciti, gonfi e tesi, per dir così, venati di tartufi.
E inoltre vede file di paggi con piatti avvolti in vapori allettanti ed entra con loro nella grande sala dove tutto è pronto per il banchetto. O delizia! Eccola l’immensa tavola coperta d’ogni ben di dio e sfavillante, i pavoni vestiti ancora con le loro penne, i fagiani con le ali bronzo dorate spalancate, le fiaschette color rubino, le mirabili piramidi di frutta tra i rami versi, e quei pesci stupendi di cui parlava Garrigou (eh, sì, Garrigou!) disposti su di un piano di finocchi, con le scaglie di madreperla, quasi fossero appena usciti dall’acqua, e con un mazzetto d’erbe aromatiche ficcato nelle narici da mostri. La visione di tali meraviglie è così viva che il buon don Balaguère ha l’impressione di vederseli serviti lì, quei piatti prelibati, sui ricami della tovaglia dell’altare, e così, per un paio di volte, invece de lDominus vobiscum! Si accorge con sorpresa che sta dicendo il Benedicite. A parte queste piccole sviste, il brav’uomo celebra l’uffizio con coscienza, senza saltare un rigo, senza dimenticare una genuflessione. Tutto fila via liscio, o quasi, fino alla fine della prima messa, perchè, come già sapete, per la festa di Natale, l’officiante deve celebrare tre messe una via l’altra.
«E una!», si disse il cappellano con un sospiro di sollievo, poi, senza indugi, fa un cenno al chierichetto, o a quello che gli sembrava essere il suo chierichetto, e...
Din-din! Din-din!
E inizia la seconda messa e con essa prende forma il peccato di don Balaguère.
« In fretta, in fretta, sbrigati!», gli grida con la vocetta acida la campanella di Garrigou, e questa volta il povero officiante, posseduto ormai dal demone della gola, si getta sul messale e divora le pagine con una bramosia che non fa che aumentare. S’abbassa, si alza frenetico, accenna segni di croce e genuflessioni, limita i gesti per finire prima. È già molto se allarga le braccia al Vangelo, se si batte il petto al Confiteor. Tra lui e il chierichetto fanno a gara a chi farfuglia più in fretta: versetti e responsori s’accavallano e si spingono. Le parole dette a metà e a bocca chiusa, altrimenti si perde tempo, finiscono in mormorii incomprensibili.
Oremus ps...ps...ps.
Mea culpa...pa...pa.
Come vendemmiatori che hanno fretta e pigiano l’uva nel tino, i due s’impegolano nel latino della messa e schizzano suoni da tutte le parti.
Dom...scum!...dice Balaguère.
Stutuo!...risponde Garrigou; e per tutto il tempo l’infernale campanella gli continua a squillare nelle orecchie come sonagliere che si mettono ai cavalli di posta per farli galoppare di gran carriera. Potete ben immaginare come, con quel ritmo, una messa bassa finisca in un battibaleno.
« E due!», dice il cappellano senza fiato; poi, senza darsi la pena di respirare, rosso, sudato, ruzzola per i gradini dell’altare e...
Din-din! Din-don!
E comincia la terza messa. Mancano solo pochi passi per arrivare nella sala da pranzo, ma ahimè, via via che la cena si fa più vicina, lo sfortunato Balaguère è assalito dal demone dell’impazienza e dell’ingordigia. La visione si fa più nitida, le carpe dorate, i dindi arrosto sono lì, più vicini. Li tocca..li..oh mio Dio!...i piatti fumano, i vini hanno un delizioso profumo, e scuotendo il suo batacchio furibondo, la campanella gli grida:
« In fretta, in fretta, molto più in fretta!».
Ma come si fa ad andare più in fretta? A stento gli si muovono le labbra, non riesce a spiccicar parola...a meno di non ricorrere a un sotterfugio e turlupinare Dio cambiandogli la messa in tavola...ed è proprio quello che fa, lo sciocco. Di tentazione in tentazione, ti salta prima un versetto, poi due. L’epistola è troppo lunga, te la lascia a metà; sfiora il Vangelo, non fa visita al Credo e passa avanti, salta il Pater e da lontano saluta il prefazio poi, balzellon balzelloni, si precipita inesorabilmente verso la dannazione eterna, seguito dall’infame Garrigou (vade retro, Satana!) che l’asseconda in perfetta sintonia: gli solleva la pianeta, gira le pagine due a due, urta nei leggii, rovescia le ampolline e non la smette più di suonare la campanella sempre più forte, sempre più in fretta.
Bisogna vedere che faccia sgomenta hanno i presenti costretti a seguire secondo la mimica del prete quella messa di cui non capiscono un’acca; ecco gli uni alzarsi e gli altri inginocchiarsi, poi sedersi quando gli altri stanno in piedi; e sui banchi si susseguono le più varie posture, una diversa dall’altra per seguire quell’impossibile rito. La stella di Natale in cammino per le vie del cielo verso la piccola stalla laggiù, impallidisce di spavento vedendo quella confusione.
« Quel prete corre troppo...Non si riesce a seguirlo», mormora la Marchesa desolata, scuotendo i pizzi.
Don Arnoton, con grossi occhiali d’acciaio sul naso cerca nel messale dove diavolo sia. Ma, in fondo,tutte quelle brave persone, non stanno forse pensando alla stessa cosa? Non sono affatto seccati per l’andatura da gran carriera che ha preso la messa; e quando, col viso raggiante, don Balaguère si volta verso i presenti gridando con tutto il fiato che ha in gola: Ite, missa est, nella cappella una voce sale all’unisono e gli risponde con un Deo gratias così festoso, così entusiasta, da fare pensare che si sia già tutti a tavola a fare il primo brindisi della serata.
Cinque minuti dopo, la folla dei notabili si sedeva nella grande sala col cappellano al centro. Il castello scintillava da cima a fondo e tra canti, grida, risate, clamori, il venerabile don Balaguère infilzava con la forchetta l’ala d’un francolino, affogando i rimorsi del suo peccato in fiumi di vino dei papi e di sughi di carne. Il povero sant’uomo tanto mangiò e tanto bevve ch’ebbe una crisi terribile e morì la notte stessa, senza avere il tempo di pentirsi; poi, il mattino seguente, comparve in cielo ancora tutto in subbuglio per i festeggiamenti della notte; vi lascio immaginare come fu accolto.
« Stammi lontano, cattivo cristiano!» Gli disse il giudice supremo, signore di tutti noi. « La tua colpa è grande quanto basta per cancellare un’intera vita virtuosa...! Tu mi hai rubato una messa di mezzanotte...Me la ripagherai trecento volte e non entrerai in paradiso fino a quando non avrai celebrato trecento messe di Natale nella tua cappella, alla presenza di tutti quelli che hanno peccato con te e per colpa tua».
Questa è la vera leggenda di don Balanguere, come la si racconta nel paese delle olive. Oggi il castello di Trinquelage non esiste più, ma la cappella sì, ben salda sulla cima del monte Ventoux, in un bosco di lecci. Il vento fa sbattere la porta sconnessa, l’erba ha invaso la soglia, gli uccelli fanno il nido agli angoli dell’altare e nel vano delle finestre altissime, ma le vetrate sono scomparse da un pezzo. Tuttavia sembra che tutti gli anni, a Natale, una luce soprannaturale vaghi tra quelle rovine e i contadini che si recano a messa e ai cenoni scorgano quello spettro di cappella illuminato da ceri invisibili che restano accesi all’aria aperta, anche quando nevica o tira vento. Potete ben ridere, se ci tenete, ma un vignaiolo del posto, si chiama Garrigue, ed è certamente un discendente dell’altro, m’ha garantito che una sera di Natale, essendo un po’ sbronzo in verità, s’era perso sulla montagna dalle parti di Trinquelage; ed ecco quel che aveva visto...Fino alle undici proprio niente. Tutto era silenzioso, spento, inanimato. All’improvviso, verso mezzanotte, sentì uno scampanio venire dalla cima del campanile, ma uno scampanio così vecchio, così antico che sembrava giungere da almeno dieci leghe di distanza. Ben presto, sulla strada in salita, Garrigue vide dei fuochi tremolanti, un muoversi di ombre vaghe. Sotto il portico della cappella c’era gente che camminava e bisbigliava:
« Buonasera, don Arnoton».
« Buonasera, buonasera, figlioli».
Quando tutti furono entrati, il vignaiolo, ch’era molto coraggioso, s’avvicinò adagio e, guardando attraverso la porta rotta, assistette a uno spettacolo straordinario. Tutta la gente che aveva visto passare stava in cerchio nel coro, nella navata in rovina, come se ci fossero ancora i vecchi banchi. Belle dame in abiti di broccato, coi capelli pieni di nastri, gentiluomini ch’erano tutti un fronzolo, contadini con le giacche a fiori come usavano i nostri nonni, ma vecchi, spenti, polverosi e stanchi. Di tanto in tanto, gli ospiti abituali della cappella, gli uccelli notturni che la luce aveva svegliato, giravano intorno alla fiamma dei ceri che saliva dritta e pallida quasi bruciasse dietro a un velo; un personaggio divertiva molto Garrigue, un omone con gli occhialoni d’acciaio, che scuoteva continuamente la parrucca altissima e nera in cui s’era impegolato un uccello che sbatteva silenziosamente le ali.
In fondo, un vecchietto grande come un bambino, in ginocchio al centro del coro, scuoteva disperatamente una campanella senza batacchio e senza suono e un prete, vestito d’oro antico si muoveva accanto all’altare recitando preghiere di cui non si sentiva niente. Era proprio don Balaguère e stava celebrando la sua terza messa bassa.

Alphonse Daudet, Lettres de mon moulin, 1869

Edizione Garzanti, 1991, traduzione di Angelo Fiocchi

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