Giorgione (1478 - 1510) |
Al tempo di Gesù i pastori erano considerati impuri e peccatori, che,
secondo le scritture, il Messia alla sua venuta, avrebbe eliminato fisicamente.
Erano servi malpagati e sfruttati da parte dei proprietari del gregge, e quindi
sopravvivevano con il furto ai padroni o agli altri pastori con i quali
contendevano i pascoli (Gen 13,7; 26,20). Vivevano di
ruberie e spesso ci scappava anche il morto. Inoltre, per la loro condizione di
vita, isolati nelle montagne e nei pascoli per gran parte dell’anno, a contatto
solo con le bestie, erano per lo più bruti, selvaggi pericolosi che era
sconsigliabile incontrare. Erano esclusi dal tempio e dalla sinagoga, per loro
non c’era alcuna possibilità di salvezza. Erano esclusi anche dal perdono di Dio perchè non potevano restituire quel
che avevano rubato, secondo quanto era prescritto dalla Legge (Lv 5,21-24). Privati dei diritti civili, esclusi dalla vita sociale, ai pastori era
negata la possibilità di essere testimoni, poiché, in quanto ladri e bugiardi,
non erano credibili e valevano meno delle bestie che dovevano accudire. Equiparati agli immondi pagani, per i quali non
c’era alcuna speranza, si insegnava infatti che, se si poteva tirare fuori un
animale caduto in una fossa il pastore no: «Non si tirano fuori da un fosso né
i pagani né i pastori». La condizione più disprezzata era
quella del pastore.
Una volta
non era così infatti il re Davide, ispirato da Dio, aveva scritto in uno dei
salmi più sublimi: «Il Signore è il mio pastore» (Sal. 23,1)? Al tempo in cui
Davide scriveva il salmo, la società palestinese era diversa, era ancora di
stampo nomade, e nel mondo beduino il ruolo del pastore era importante, al
punto da diventare figura del capo, del re, e quindi di Dio. Poi la società andò
mutando e diventò sempre più sedentaria, passando dall’attività prevalente
della pastorizia a quella dell’agricoltura. Ora si sa che tra agricoltori e
pastori c’è stata tensione e non è mai corso buon sangue, perchè gli interessi
degli uni sono a scapito di quelli degli altri. L’atavica rivalità tra
agricoltori e pastori veniva fatta risalire al Libro della Genesi, addirittura
a Caino e Abele, causa del primo assassinio della storia dell’umanità (Gen
4,3-8).
Al tempo
di Gesù l’immagine idilliaca del pastore era ormai un ricordo e la realtà era
ben altra. Raffigurati come nemici del Signore, ai pastori spettava solo il
castigo di Dio. Castigo che la
società del tempo aspettava con l’apparizione del Messia.
Con Gesù cambia il concetto di Dio
Con Gesù però Dio non è più lo stesso di prima, e neanche i pastori saranno
più gli stessi di prima. Infatti proprio ai pastori, viene annunciata la
nascita del loro Salvatore. Con Gesù cambia il concetto di Dio che non è colui
che punisce, ma colui che salva; non colui che castiga, ma colui che perdona. Inoltre
bisogna considerare che colui che annuncia ai pastori la nascita di Gesù è
l’Angelo del Signore, espressione con la quale nella Bibbia non si indica un
angelo qualsiasi inviato dal Signore, ma Dio stesso che entra in contatto con
gli uomini. Dio era considerato lontano, inavvicinabile,
era l’Altissimo, nell’alto dei cieli, e non entrava in contatto diretto con gli
uomini. Quando lo faceva, si usava la formula Angelo del Signore (Gen
16,10-13). Immagine ed estensione dello stesso Dio, l’Angelo del Signore
incuteva paura. Era infatti
raffigurato «con la spada sguainata in mano» (1Cr 21,16), pronto a Castigare,
punire, sterminare («porta lo sterminio in tutto il territorio d’Israele», 1Cr
21,12). Alla sua vista, i pastori «furono impauriti di grande paura» (Lc 2,9). Pensarono che fosse giunta la loro ora, quella di essere inceneriti
dall’ira divina, come aveva annunciato il profeta Isaia.
Ma con Gesù appare il vero volto di Dio il ruolo dell’Angelo del
Signore non è più in funzione del castigo e della punizione, da ora in poi sarà
solo in funzione della vita. L’Angelo del Signore nel vangelo di Luca compare
tre volte, e sempre per annunciare una nuova vita: al sacerdote Zaccaria
annuncia la nascita del figlio Giovanni, a Maria quella di Gesù e ai pastori
quella del Salvatore. Ma i pastori questo ancora non lo sanno, e rimangono nel
terrore della fine imminente. Invece dal cielo non scende un fuoco distruttore
che li annienta, ma «la gloria del Signore li avvolse di luce» (Lc 2,9). La gloria del Signore, ovvero il suo amore, avvolge, abbraccia
completamente i pastori inondandoli della sua luce.
L’amore come dono non come premio
Il
Signore non ha chiesto ai pastori di pentirsi del loro comportamento, non li ha
invitati a far penitenza per i loro peccati, neanche ha imposto loro di
purificarsi o di recare offerte al tempio. Li ha amati, e l’amore rende liberi,
ma non solo. I pastori hanno sperimentato l’amore come regalo e non come
premio, come dono e non come frutto dei loro meriti.
Una volta
che si fa esperienza di questo amore, e lo si accoglie, non esistono più
barriere tra Dio e gli uomini, non si è più gli stessi di prima, perché Dio non
e piu lo stesso.
I pastori
credevano di essere i più lontani da Dio per la loro condizione di impurità, di
illegalità, di peccato e si ritrovano di colpo a essere i più vicini al
Signore, al punto che se ne ritornano alle loro greggi «glorificando e lodando
Dio» (Lc 2,20), svolgendo il ruolo dei sette angeli ammessi al servizio di
Dio’°, gli esseri piu vicini a lui che avevano come compito quello di
glorificarlo e di lodarlo.
E questo
è solo l’anticipo della buona notizia che il neonato Gesù porterà al mondo, per
la gioia dei peccatori e l’ira furibonda dei pii, per l’allegria degli
emarginati dalla religione e l’astio della casta sacerdotale al potere, perché,
si sa, «nessun profeta è accetto nella sua patria», proprio come succederà a
Gesù (Lc 4,16-30).
Alberto Maggi da Non c'è più religione,
pp. 11-21.
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