mercoledì 25 gennaio 2017

SAN FRANCESCO DI SALES TESTIMONE DEL VANGELO



Francesco di Sales nacque a Thorens il 21 agosto 1567 e ricevette una solida formazione classica e spirituale presso la scuola dei gesuiti. Il padre, che desiderava per suo figlio una carriera giuridica, lo mandò a studiare in uno dei più prestigiosi atenei del tempo, l’università di Padova. In questo periodo della sua vita Francesco maturò la scelta della vocazione sacerdotale. Ricevuta l’ordinazione presbiterale il 18 dicembre 1593, fu inviato a svolgere il suo ministero pastorale nella regione del Chablais, un territorio caratterizzato da una alta presenza di calvinisti.
Francesco affrontò questa situazione con tanta diplomazia e saggezza, iniziando a tessere un dialogo rispettoso e proficuo verso coloro che accettavano il confronto ma anche verso coloro che si rifiutavano di affrontare un dialogo. Egli decise di pubblicare ed affiggere dei manifesti, dove esponeva le sue argomentazioni per le varie tematiche riguardanti vari aspetti della vita. Per questa ragione, Francesco di Sales è stato dichiarato nel 1923 patrono dei giornalisti.
Francesco di Sales è stato un illustre direttore spirituale, che sapeva scrutare le anime, proponendo sempre una riflessione adeguata alla situazione della persona, offrendo consigli per dare coraggio nella vita spirituale, ed aiutando a discernere e a compiere la propria vocazione nell’evangelizzazione e nel servizio dei fratelli.
Francesco di Sales fu nominato Vescovo di Ginevra nel 1602, proseguendo ed ampliando la sua azione pastorale iniziata da sacerdote, contribuendo insieme a Francesca de Chantal alla fondazione dell’Ordine della Visitazione, che ebbe il grande merito di promuovere la spiritualità del Sacro Cuore di Gesù.
Francesco di Sales morì il 28 dicembre del 1622. Fu beatificato nel 1661, canonizzato nel 1665 e proclamato Dottore della Chiesa nel 1887 da Papa Leone XIII.
Francesco di Sales è un santo che continua a risvegliare la fede della Chiesa. Egli diviene il modello di come intraprendere il dialogo ecumenico e interreligioso. Utilizzare i manifesti è stata una idea geniale e rivoluzionaria, perché consentiva una rapida diffusione dei suoi scritti ad una vasta popolazione scarsamente propensa al confronto.
Oggi ai cristiani è offerta la possibilità di usare la rete per diffondere il messaggio cristiano e combattere le tante ideologie pragmatiche che contrastano contro le verità della fede cattolica. Esistono varie forme di giornalismo cristiano che possono essere applicate verso il mondo della rete: il giornalismo dell’evangelizzazione, il giornalismo della testimonianza, il giornalismo della verità.
La fede nasce sempre dall’ascolto, l’ascolto richiede qualcuno che annunzi, e l’annunziatore del Vangelo ha bisogno della grazia. Oggi urge diffondere la grazia del Vangelo agli uomini assopiti e distratti dall’abuso dei social network, che tendono ad essere sempre più mezzi di infruttuoso esibizionismo e di malsane curiosità. Annunziare il Vangelo significa portare l’interezza del messaggio cristiano, per risvegliare gli uomini dal torpore della vita, invitandoli a riflettere sul significato della famiglia, sull’importanza dell’educazione dei figli, sull’assistenza alle persone anziane, sull’accoglienza dei bisognosi, sulla necessità del chiedere perdono e del dare perdono in ogni ambito dove si vive. In una sola parola evangelizzare attraverso la radio, la televisione, i giornali, e la rete significa portare il messaggio cristiano per mezzo di una parola di vita piena di speranza, di consolazione e di conforto.
La testimonianza è il prolungamento naturale dell’evangelizzazione. Offrire la propria testimonianza è sicuramente efficace quando siamo conosciuti di persona, quando la gente è informata sul nostro stile di vita. Questa è la testimonianza silenziosa che lascia parlare i fatti, lasciando mute le parole. Ma è possibile una altra forma di testimonianza, che consiste nel raccontare la propria esperienza, che non è detto che sia sempre una storia costellata di successi. Il racconto dei propri fallimenti, accompagnati dall’intervento della grazia di Dio, è un fare giornalismo che attira il lettore, perché abbatte le barriere dell’ipocrisia, elimina l’imbarazzo del sentirsi inadeguato, crea empatia con la persona anche se non la si conosce, ed infine ristabilisce la fiducia verso chi si ritiene l’unico che vive quella situazione di dolore e di fallimento.
La terza forma di evangelizzazione è quella di fondare ogni parola ed ogni gesto sulla verità. La libertà del giornalista non significa scrivere quello che desidera, e nemmeno poter trattare qualunque argomento arrogandosi il diritto di esporre qualsiasi opinione personale. Il dovere del giornalista è quello di tacere, quando non è sicuro della notizia che vuole pubblicare. Quando vengono riportate calunnie, menzogne, diffamazioni e disinformazioni il giornalista diventa portatore di odio, di violenza e di ingiustizia. Se alcune parole contribuiscono a risollevare l’animo, altre parole possono creare ferite dolorose alla coscienza.  La verità della notizia è il principio del buon giornalismo, perché la verità restituisce quella libertà che la menzogna ha derubato, nascosto e profanato.
Francesco di Sales è il patrono dei giornalisti cattolici, perché ha saputo coniugare in modo mirabile l’evangelizzazione, la testimonianza e la verità, incarnandoli all’interno di uno scritto e nell’opera della direzione spirituale verso le persone che ricorrevano a lui.  Lo scrivere e il parlare diventano due facce della stessa medaglia, quando sono utilizzate per proporre e non per imporre, quando rispettano l’interlocutore e non desiderano convincere, quando vogliono testimoniare la verità con la discrezione, con la mitezza e l’umiltà della fede.
 Osvaldo Rinaldi "ZENIT" on 24 January, 2017


domenica 1 gennaio 2017

Chi erano i pastori di Beltemme?

Giorgione (1478 - 1510)



Al tempo di Gesù i pastori erano considerati impuri e peccatori, che, secondo le scritture, il Messia alla sua venuta, avrebbe eliminato fisicamente. Erano servi malpagati e sfruttati da parte dei proprietari del gregge, e quindi sopravvivevano con il furto ai padroni o agli altri pastori con i quali contendevano i pascoli (Gen 13,7; 26,20). Vivevano di ruberie e spesso ci scappava anche il morto. Inoltre, per la loro condizione di vita, isolati nelle montagne e nei pascoli per gran parte dell’anno, a contatto solo con le bestie, erano per lo più bruti, selvaggi pericolosi che era sconsigliabile incontrare. Erano esclusi dal tempio e dalla sinagoga, per loro non c’era alcuna possibilità di salvezza. Erano esclusi anche dal perdono di Dio perchè non potevano restituire quel che avevano rubato, secondo quanto era prescritto dalla Legge (Lv 5,21-24). Privati dei diritti civili, esclusi dalla vita sociale, ai pastori era negata la possibilità di essere testimoni, poiché, in quanto ladri e bugiardi, non erano credibili e valevano meno delle bestie che dovevano accudire. Equiparati agli immondi pagani, per i quali non c’era alcuna speranza, si insegnava infatti che, se si poteva tirare fuori un animale caduto in una fossa il pastore no: «Non si tirano fuori da un fosso né i pagani né i pastori». La condizione più disprezzata era quella del pastore.
Una volta non era così infatti il re Davide, ispirato da Dio, aveva scritto in uno dei salmi più sublimi: «Il Signore è il mio pastore» (Sal. 23,1)? Al tempo in cui Davide scriveva il salmo, la società palestinese era diversa, era ancora di stampo nomade, e nel mondo beduino il ruolo del pastore era importante, al punto da diventare figura del capo, del re, e quindi di Dio. Poi la società andò mutando e diventò sempre più sedentaria, passando dall’attività prevalente della pastorizia a quella dell’agricoltura. Ora si sa che tra agricoltori e pastori c’è stata tensione e non è mai corso buon sangue, perchè gli interessi degli uni sono a scapito di quelli degli altri. L’atavica rivalità tra agricoltori e pastori veniva fatta risalire al Libro della Genesi, addirittura a Caino e Abele, causa del primo assassinio della storia dell’umanità (Gen 4,3-8).
Al tempo di Gesù l’immagine idilliaca del pastore era ormai un ricordo e la realtà era ben altra. Raffigurati come nemici del Signore, ai pastori spettava solo il castigo di Dio. Castigo che la società del tempo aspettava con l’apparizione del Messia. 

Con Gesù cambia il concetto di Dio

Con Gesù però Dio non è più lo stesso di prima, e neanche i pastori saranno più gli stessi di prima. Infatti proprio ai pastori, viene annunciata la nascita del loro Salvatore. Con Gesù cambia il concetto di Dio che non è colui che punisce, ma colui che salva; non colui che castiga, ma colui che perdona. Inoltre bisogna considerare che colui che annuncia ai pastori la nascita di Gesù è l’Angelo del Signore, espressione con la quale nella Bibbia non si indica un angelo qualsiasi inviato dal Signore, ma Dio stesso che entra in contatto con gli uomini. Dio era considerato lontano, inavvicinabile, era l’Altissimo, nell’alto dei cieli, e non entrava in contatto diretto con gli uomini. Quando lo faceva, si usava la formula Angelo del Signore (Gen 16,10-13). Immagine ed estensione dello stesso Dio, l’Angelo del Signore incuteva paura. Era infatti raffigurato «con la spada sguainata in mano» (1Cr 21,16), pronto a Castigare, punire, sterminare («porta lo sterminio in tutto il territorio d’Israele», 1Cr 21,12). Alla sua vista, i pastori «furono impauriti di grande paura» (Lc 2,9). Pensarono che fosse giunta la loro ora, quella di essere inceneriti dall’ira divina, come aveva annunciato il profeta Isaia.
Ma con Gesù appare il vero volto di Dio il ruolo dell’Angelo del Signore non è più in funzione del castigo e della punizione, da ora in poi sarà solo in funzione della vita. L’Angelo del Signore nel vangelo di Luca compare tre volte, e sempre per annunciare una nuova vita: al sacerdote Zaccaria annuncia la nascita del figlio Giovanni, a Maria quella di Gesù e ai pastori quella del Salvatore. Ma i pastori questo ancora non lo sanno, e rimangono nel terrore della fine imminente. Invece dal cielo non scende un fuoco distruttore che li annienta, ma «la gloria del Signore li avvolse di luce» (Lc 2,9). La gloria del Signore, ovvero il suo amore, avvolge, abbraccia completamente i pastori inondandoli della sua luce.

L’amore come dono non come premio

Il Signore non ha chiesto ai pastori di pentirsi del loro comportamento, non li ha invitati a far penitenza per i loro peccati, neanche ha imposto loro di purificarsi o di recare offerte al tempio. Li ha amati, e l’amore rende liberi, ma non solo. I pastori hanno sperimentato l’amore come regalo e non come premio, come dono e non come frutto dei loro meriti.
Una volta che si fa esperienza di questo amore, e lo si accoglie, non esistono più barriere tra Dio e gli uomini, non si è più gli stessi di prima, perché Dio non e piu lo stesso.
I pastori credevano di essere i più lontani da Dio per la loro condizione di impurità, di illegalità, di peccato e si ritrovano di colpo a essere i più vicini al Signore, al punto che se ne ritornano alle loro greggi «glorificando e lodando Dio» (Lc 2,20), svolgendo il ruolo dei sette angeli ammessi al servizio di Dio’°, gli esseri piu vicini a lui che avevano come compito quello di glorificarlo e di lodarlo.
E questo è solo l’anticipo della buona notizia che il neonato Gesù porterà al mondo, per la gioia dei peccatori e l’ira furibonda dei pii, per l’allegria degli emarginati dalla religione e l’astio della casta sacerdotale al potere, perché, si sa, «nessun profeta è accetto nella sua patria», proprio come succederà a Gesù (Lc 4,16-30).

Alberto Maggi da Non c'è più religione, pp. 11-21.